Sono 34 gli anni che separano il 4 luglio del 1985 dall'Independence Day del 2019, giorno in cui la terza stagione di Stranger Things è approdata nel catalogo online di Netflix. A dividere realtà e fantasia sono più di trent'anni, oltre naturalmente a un nutrito gruppo di mostri e aberranti creature. Lo show dei fratelli Duffer ne è perfettamente consapevole e proprio sulla nostalgia degli anni '80 articola gran parte del proprio fascino, confezionando una visione attraente di un contesto storico e sociale ancora amato da molti. Una simile scommessa, indubbiamente vincente in occasione del debutto, ha però perso in fretta l'originalità che sembrava poterle appartenere, incagliandosi con una seconda stagione più grande, più lunga, più costosa, ma difficilmente migliore. Non è difficile quindi immaginare le ragioni per cui questo terzo ciclo di episodi possa venir considerato un vero e proprio banco di prova, attraverso cui valutare il futuro (o l'eredità) dell'intera serie. Una prova che viene brillantemente superata, per un titolo che ormai cresce insieme ai suoi giovani protagonisti, cambiando forma (ma non sostanza) e adattandosi all'adolescenza e alle sue tematiche.
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Per quanto il finale della precedente stagione avesse chiaramente lasciato intendere la presenza di nuove e ancor più gravi minacce, agli occhi dei protagonisti gli sforzi ed i sacrifici compiuti sembravano essere riusciti a regalare a tutta la cittadina di Hawkins una meritata tranquillità. La pace piano piano ha nuovamente invaso le strade, mentre i sopravvissuti sono tornati alla normalità. Eppure, nonostante la ritrovata serenità, non tutto è rimasto immutato. La storica compagnia di amici sembra ora essersi allontanata, anche a causa delle nuove relazioni che ne hanno turbato le dinamiche. Dustin è appena tornato dal campeggio raccontando di una formidabile ragazza lì conosciuta, mentre sia Max e Lucas che Eleven e Mike si sono fidanzati e si frequentano da qualche mese (per il dispiacere dello sceriffo Hopper). Molto in effetti è cambiato e anche Will sembra averlo compreso, pur rimanendo visibilmente restio ad accettarlo. Un'evoluzione in parte obbligata, anche alla luce del lungo intervallo temporale che ha diviso le ultime due stagioni. Due anni in cui gli stessi attori sono cresciuti, necessitando di un conseguente adattamento dei ruoli, e poco meno di un anno all'interno della serie - ma, in una fase come quella tra l'infanzia e l'adolescenza, un anno non può che portare enormi cambiamenti. Non a caso, mai come ora a tenere banco durante gli otto episodi sono i personaggi più che le vicende narrate. I dialoghi tra i protagonisti catturano l'attenzione dello spettatore, con scambi di battute frenetici, vivaci, pieni di ironia e sarcasmo. Il racconto di una normalità, quella adolescenziale, interessante soprattutto alla luce del contrasto che genera con le parentesi più serie e mature dello show, viene portato ancor più in primo piano. La narrazione diventa quindi una descrizione, uno spaccato sulla vita e sui rapporti sociali di una piccola cittadina dell'Indiana. Dai problemi lavorativi di Nancy, alle difficoltà amorose dei protagonisti, sul palco si alternano momenti di vita vissuta comuni, in un modo o nell'altro, alla totalità degli spettatori.
Con lodevole astuzia, la narrazione ritorna su una decisione che due anni fa aveva fatto storcere più di qualche naso. Il fitto cast di personaggi viene nuovamente diviso, fornendo il pretesto perfetto per l'articolazione di più linee narrative destinate ad accavallarsi e incontrarsi con il passare del tempo. Gli sceneggiatori riescono così a dirigere l'attenzione del pubblico verso gli elementi più congeniali alla progressione della storia. Il tempo quindi rallenta, mentre con attenzione vengono sviscerate le nuove relazioni che interconnettono i protagonisti. Tra amati ritorni (la coppia formata da Dustin e Steve si conferma un'eccellente intuizione) e l'introduzione di nuovi personaggi (Robin, interpretata da Maya Hawke, su tutti), la pericolosa ricerca di indizi che aveva caratterizzato anche le precedenti stagioni si aggrappa disperatamente all'ottimo lavoro svolto in sede di caratterizzazione e scrittura dei ruoli.
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La volontà di espandere la dimensione narrativa non si traduce in una conseguente complessità di presentazione degli eventi. O perlomeno, non nella stessa invadente maniera che aveva contraddistinto il secondo ciclo di episodi. Le vicende, che allora apparivano eterogenee e disunite, in questo caso manifestano chiaramente una comune direzione. Non a caso fin dal primo episodio si possono facilmente le direzioni verso cui il racconto volgerà il proprio sguardo. La narrazione diventa quindi più lineare, articolandosi in modo da sfruttare fino in fondo la ricchezza di personaggi e ambientazioni: la trama orizzontale, che in questa stagione ci regala alcuni dei momenti più squisitamente ripugnanti e splatter della serie, è intrigante e di proporzioni più grandi che mai, ma sono i personaggi il vero cuore di Stranger Things, il suo motore. Il vero mostro di questa stagione allora forse non è il Mind Flayer, ma la crescita dei protagonisti, che ne determina le diverse dinamiche e i primi attriti. In questo contesto si sviluppa anche l'amicizia tra Eleven e Max, regalandoci per la prima volta uno sguardo anche sull'amicizia femminile (il rapporto Nancy/Barb della prima stagione era davvero solo abbozzato e schiavo della trama) e dando a Eleven una dimensione oltre il suo rapporto con Mike. Non è l'unica "prima volta" della serie: i fratelli Duffer introducono il primo personaggio dichiaratamente LGBT e lo fanno in maniera del tutto inaspettata, con un vero e proprio piccolo plot twist nel rapporto tra Steve e Robin. Il coming out di Robin alla dichiarazione di Steve è delicato, genuino, sostenuto dalla magnifica interpretazione di Maya Hawke (che, per chi ancora non lo avesse intuito dall'estrema somiglianza con la madre, è la figlia di Uma Thurman ed Ethan Hawke). Persino Jonathan e Nancy, ormai quasi adulti, devono fare i conti con la crescita e con i problemi di coppia causati dal loro lavoro al giornale di Hawkins, e devono imparare a conciliare differenze che prima sembravano minuscole. E poi c'è Hopper. Che, con quella sua lettera finale (forse un po' didascalica ma strappalacrime), parla proprio di crescita, di quanto spaventi ma di come sia inevitabile.
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Non è una stagione perfetta. Alcune storyline funzionano meglio di altre (l'indagine con fuga di Joyce e Hopper con relativo cattivone alla Terminator non è all'altezza delle altre), e in generale le leggi che regolano l'universo dello show restano sempre un po' troppo nebulose, con dubbi e domande che restano irrisolti in favore di un ritmo spedito e concitato (che comunque funziona). Anche la scelta di puntare molto sui momenti comici e sulle gag, che pure funziona in alcuni frangenti, in altri si rivela un po' forzata, per quanto venga in qualche modo bilanciata da un impianto horror più esplicitamente sanguinoso e, soprattutto, da un finale più drammatico che mai. È un'evoluzione di toni che può non convincere tutti ma che di fatto non è tragica o alienante per una serie che cambia insieme ai suoi protagonisti: Stranger Things rimane una serie di grande intrattenimento, con una storia sì semplice ma con toni ed estetica difficili da ignorare. È appagante, questa stagione più che mai, anche dal punto di vista estetico, in un tripudio di colorazioni neon e intense combinazioni cromatiche. È in fin dei conti un lunghissimo film che prende quanto di buono (e meno buono) fatto nelle precedenti stagioni e lo rimodella nella forma ma preservando quella sostanza che tre anni fa ha conquistato milioni di abbonati, rendendo Stranger Things uno dei titoli di punta e più facilmente riconoscibili del panorama di Netflix.
Titolo: Stranger Things
Genere: drammatico, fantasy, horror, fantascienza, commedia, thriller
Episodi: 8
Durata episodi: 42-77 minuti
Trasmissione italiana: Netflix
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